Ci sono frasi che sembrano dette senza cattiveria, spesso addirittura “educative”, ma che lasciano ferite profonde nei bambini. Ecco perché certe parole possono diventare piccole ma potenti aggressioni emotive.
Essere genitori non è semplice e man man che cresciamo i nostri figli potremmo anche commettere qualche errore. Potrebbe essere che ci sentiamo stanchi, frustrati e che il bambino insiste, piange, protesta, ci sfida. Ed è in questi momenti che, senza neanche pensarci troppo, ci escono quelle frasi che abbiamo sentito dire mille volte: “Se fai così non ti parlo più”, oppure “Guarda tua sorella com’è brava”, o ancora “Dai, non è successo niente, smettila di fare il teatrino”.
Piccole scariche verbali, magari dette con tono bonario o per fare in modo che il bambino ci ascolti. Il problema è che quelle parole, anche quando non sembrano gravi, si infilano sotto pelle. E lì restano.
I bambini sono sì piccoli, ma sentono tutto. Non filtrano, non relativizzano, non analizzano: vivono ogni parola come verità assoluta. E ogni messaggio che ricevono, soprattutto quando a pronunciarlo è chi dovrebbe amarli incondizionatamente, diventa un mattoncino con cui costruiranno, nel tempo, l’idea che hanno di sé. Di quanto valgono.
Di quanto meritano. Senza rendercene conto, a volte feriamo con il silenzio, con un commento pungente, con l’aspettativa che crescano prima del tempo. E pensare che non servono nemmeno le urla, i castighi, i famigerati “ceffoni educativi”: basta un “non ti voglio più vedere” detto di fretta, per creare un piccolo terremoto interiore.
Ignorare un bambino per punirlo, ad esempio smettendo di parlargli finché lo abbiamo messo in castigo per via di un errato comportamento, non fa altro che rompere quel filo invisibile di sicurezza che lo tiene ancorato all’affetto dell’adulto. Il messaggio che passa è che il legame è condizionato dal suo comportamento. E il risultato? Un senso di inadeguatezza che può accompagnarlo anche da grande.
Poi ci sono le minacce di abbandono, quelle del tipo “se fai così ti lascio qui”, magari dette al supermercato o fuori da scuola. Noi sappiamo che stiamo solo bluffando, ma il cervello del bambino no. Lui prende tutto alla lettera. E sente il panico salire.
Ridicolizzare le sue emozioni – il classico “ma dai, non piangere per queste sciocchezze” – è un’altra trappola. Lo fa sentire sbagliato, esagerato, inopportuno. E così, piano piano, imparerà a tenersi dentro tutto. Non perché non sente più, ma perché pensa che nessuno voglia vedere.
E poi i paragoni, lo sport preferito di tanti adulti in crisi di pazienza: “guarda tuo cugino com’è educato”. Come se l’imitazione fosse la chiave della crescita. In realtà, il confronto continuo mina l’autostima, fa sentire sempre un passo indietro, mai davvero abbastanza.
Infine, pretendere che un bambino abbia reazioni da adulto, solo perché “è grande ormai”, è un errore sottile ma frequente. Crescere non è un interruttore, e anche se sa fare i compiti da solo o si allaccia le scarpe, questo non significa che sappia gestire la rabbia o la frustrazione come un trentenne zen.
Non si tratta di fare i genitori perfetti ma di essere presenti, attenti, umani. Basta poco: ascoltare, accogliere, magari chiedere scusa quando si è andati oltre. L’infanzia è una terra fragile ma potentissima. E tutto ciò che vi seminiamo continuerà a parlare anche quando quei bambini saranno diventati adulti e anche quando saranno genitori.
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